Virginio Zanolla

Intervista a Virgilio Zanolla

Libri

Traduttori e assassini è l’ultima opera di Zanolla: “…Anche saper tradurre può essere un’arte. Per me, un bravo traduttore dev’essere ad un tempo poeta, traduttore e filologo. Poeta, per avvertire con la stessa sensibilità dell’autore che traduce, entrando con naturalezza in sintonia col suo modo di vedere le cose ed esprimerle…”

D. Anzitutto, due parole su di lei.

R. Sono genovese, classe 1953, coltivo vari interessi culturali e in àmbito letterario mi occupo anche di saggistica e traduco. Oltre ad articoli e brevi saggi, ho pubblicato La brasiliana svelata. Storia mai raccontata della più grande narrativa del Sud America (1870-1922) (Roma, Robin, 2007), Mario Rapisardi dall’ombra alla luce (Pavia, Medea, 2012), traduzioni di opere narrative di Adolfo Caminha, Artur e Aluísio de Azevedo, Manuel de Oliveira Paiva, José Martiniano de Alencar e altri scrittori brasiliani, e dei Sonetti scelti di Lope de Vega (Piazza Armerina, Nulla die, 2018).

D. Traduttori e assassini è un titolo piuttosto forte per un saggio letterario.

R. Infatti si tratta al tempo stesso di un saggio e di un pamphlet. D’altronde, anche a volerlo, è impossibile non essere polemici con le scelte messe in atto dalla stragrande maggioranza di coloro che traducono testi poetici di autori classici, e infischiandosi della struttura metrica e della rima volgono tutto in modo prosastico. Poi ci si chiede come mai molti poeti di grande valore delle altre letterature nel nostro paese non sono conosciuti come meriterebbero… Lo credo bene! Andate a vedere come sono stati tradotti i loro testi.

D. Qual è allora la strada per tradurre che lei consiglia?

R. La strada per tradurre testi poetici in rima, – ovvero che riguarda, grosso modo, la maggior parte della produzione lirica, satirica ed epica apparsa nei secoli tra il Duecento e il primo Novecento – è senz’altro quella di rispettarne lo schema metrico e, quando si può, la scansione sillabica, ripensandoli come scritti da un poeta italiano coevo dei loro autori. La rima va sempre rispettata, dov’è presente.

D. Ma tra una poesia in rima tradotta col rispetto per il testo che lei dice e la stessa poesia tradotta in modo prosastico c’è davvero tanta differenza?

R. Come dal giorno alla notte. Privata della sua prosodia, la poesia registra inevitabilmente una pesante caduta di tono. Ciò che i traduttori fautori del prosastico si ostinano a fingere di non capire è che il prosastico è lingua parlata, mentre la rima è lingua recitata, quando non declamata: una diversità sostanziale, anzitutto sul piano della ricezione. Un testo in rima proposto in prosa ha la stessa valenza di una Ferrari col motore di una 500.

D. Perché i traduttori che optano per il prosastico risultano, lei dice, la stragrande maggioranza?

R. Perché in questo modo non affaticano il cervello assumendosi l’onerosa incombenza di fare corrispondere lo schema metrico e la scansione sillabica, ricreando tutte le rime. Le pare poco? Oltre a ciò, è quasi impossibile riuscirci senza affidarsi alle risorse della rettorica e a quelle della lingua letteraria: risorse che essi aborrono come fossero Nembo Kid a contatto con la kryptonite… Perché il loro fine è quello di attualizzare lessicalmente i testi. In altre parole, anziché muovere il lettore verso i testi, pretendono di portare i testi verso il lettore: ciò che da più punti di vista costituisce un gravissimo errore…

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