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LA DONNA, MADRE E DEA
Liberi pensieri di Simona Ciccarese con i testi di Maria Soave Buscemi
C’è una storia dimenticata che vale la pena riportare alla memoria e alla coscienza. Storia di rosso mestruale e forme rotonde, storia di forza e amorevolezza, storia di donna e madre, sin dall’inizio dei tempi ovunque venerata, da raccontare per ricostruire una identità. La necessità di raccontare è un’esigenza profonda, “uno spazio di cura[1]” e con il racconto “accade un incantesimo: radici erranti e dimenticate” rinnovano vitalità e ricostruiscono un senso offeso, perduto, dimenticato. Si tratta di intessere una tela che diventa calda e accogliente coperta. Per fare questo occorre de-costruire per ri-costruire in una “cospirazione di liberazione” con l’intento di generare “un sentimento libero e creativo”.

Questo racconto nasce da un silenzio, quello che avvolge l’impasto di una donna che mescola lievito e ascolta i suoi desideri. Silenzio di luna, che è donna. Lunatica, si dice di lei, e anticamente era effettivamente raffigurata con una luna sul capo, così legata al ciclo delle 13 lune. “Questo fa di lei una Dea”, Dea Madre, simbolo di fecondità, la generatrice, l’albero della Vita, il serpente, la luna. Asherah, la moglie di Dio, la Creatrice da cui tutto si origina, Ishtar, la dea legata a fonti d’acqua, “guida delle genti”, la Noè babilonese che, secondo i testi, costruì un’arca a forma di luna crescente prima del diluvio e inviò la colomba verso il cielo per controllare che le acque si fossero ritirate. Ashtarte, la “Madre dell’universo”, madre di Baal e Iside d’Egitto venerata dal 1700 a. e. v., Cibele, in origine una dea frigia, compagna di Attis (che nato il 25 dicembre, moriva e dopo 3 giorni resuscitava) che, ricordiamo, è anche la Dea, molto venerata in Italia, a cui era dedicato il primitivo tempio “pagano” nella grotta di Santa Maria di Agnano ad Ostuni prima della sua trasformazione cristiana a tempio dedicato alla Madonna.
Tutte Dee-Luna. Sensi perduti. Ri-costruire.
La trasmutazione del termine vergine avvenne in Grecia mentre da sempre “vergine indicava la Dea Luna e la donna non maritata”. La dea Madre eschimese è “la Vergine che non ha marito”. Anche in Cina c’è una Vergine Santa, Shin-Moo, la Grande Madre che partorisce un figlio mantenendo la sua verginità. Maria Soave racconta in uno dei suoi libri che una volta, in Brasile dove opera, durante uno dei suoi incontri di auto-racconto “una donna disse: lavoro, ho 6 figli e sono vergine”. Nelle culture primitive la donna vergine era tale fino alle nozze, dopo di chè veniva indicata come “donna maritata”, un costume rimasto invariato in alcuni luoghi ai margini del mondo civilizzato, come le campagne del Brasile.

Il silenzio dell’albero è un altro dei simboli associati alla Dea: Asherah, dea cananea e ebraica presente nel tempio di Jahvè veniva venerata sotto ogni albero verde ed era quindi anche Madre Natura, e anche la probabile moglie di JHWH secondo le iscrizioni dell’antico Israele. Fu lei a calpestare il serpente Yam, dio del mare nei miti ugaritici e che segnò così il primo passaggio dal caos al principio della creazione. “In Assiria, Babilonia e Caldea il simbolo della Dea era un palma, a Creta un ulivo e in Grecia la vite”. Il serpente è un altro elemento distintivo, utilizzato “sin dal neolitico e dall’età del bronzo e poi anche nella cultura minoica. La muta della pelle è metafora del ciclo nascita/vita/morte e delle piccole morti della vita: infanzia, pubertà, menopausa e rinuncia alla fertilità, distacco dalle persone care”. Ri-nascita. Nei miti vedici il serpente rivela all’umanità la virtù nascosta dell’albero della luna, capace di donare la conoscenza del bene e del male e della vita eterna. Anche il cambio iconografico del simbolo del serpente, associato forzatamente alla donna nel suo valore di tentazione è parte di questo processo di dimenticanza e distorsione.
Unioni. Connessioni. Ri-connessioni. Anatolia, Iraq, Medio Oriente, questi i luoghi dei ritrovamenti più antichi di raffigurazioni della Dea, la prima figura venerata in assoluto di cui abbiano finora conoscenza, “dai 4.000 ai 7.000 anni fa. [La Dea] passò alla storia con l’avvento della scrittura intorno al 3.000 a. C. Fino al 4.000 a.C. si ebbe una relazione di eguali. Il passaggio poi all’età del bronzo e del ferro rappresentò una cesura, e l’avvento della tecnica sembra abbia rafforzato il volto maschile violento della divinità. L’eccesso di produzione agricola rese possibile la nascita delle classi sociali. La Dea era un problema”, dice la Soave seguendo la teoria della trasformazione culturale di Riane Eisler. Le caratteristiche simili della Dea in diverse zone anche lontanissime tra loro, dalla mezzaluna fertile alle divinità celtiche sono un altro dei fili comuni che lega i popoli dell’antichità distanti e ritenuti estremamente diversi fra loro dalla genetica alle credenze (alla faccia della globalizzazione..).

Questa venerazione del femminile va però letta senza alcun senso di predominanza. La stigmatizzazione non serve nè da un lato nè dall’altro. Serve piuttosto com-prendere, accogliere, ruolo di madre: è nella dualità di uomo-donna che la vita prende forma. Non c’è divisione, c’è identità, che è al tempo stesso dualità e unità. Vale ricordare che la Madonna di Guadalupe in una delle sue prime apparizioni al giovane Juan invitò alla costruzione in quel luogo di un “piccola casa”, il cui intento era di unire due popoli diversi, uno conquistatore e uno sottomesso, nell’unità dell’accoglienza. “Non c’è arrivo ma una caduta di confini”. Non c’è un prima io e poi tu, quindi voglio stare io sul piedistallo più alto. Non può esserci competizione, che è in definitiva di tipo patriarcale. De-costruire per ritrovare un importante ancestrale retaggio che abbiamo voluto dimenticare e soprattutto distorcere. “E’ più prudente far apparire tutto uguale, univoco [per] non danneggiare, non rompere, non scompigliare. Una fodera patriarcale e violenta”. Uno stereotipo superato, già vecchio? Non credo. Ri-costruiamo, allora.
Nota dell’autore: ho cercato quì di riassumere in un breve testo tanti riferimenti, oltretutto senza fonti, suggerendo svariati percorsi di riflessione senza un adeguato approfondimento. Il mio intento era di fornire una visione di insieme seppur limitata che copre un periodo storico e un’area geografica vastissimi ma che rende in maniera efficace l’ampia diffusione del fenomeno e la sua universalità, associandomi così al dibattito sulla questione di genere. Il tutto ispirato allo stile unico di scrittura di Maria Soave Buscemi, il cui bellissimo volume, Io,Terra di Mezzo, consiglio vivamente di leggere.
[1] Tutte le citazioni sono tratte da “Io, Terra di Mezzo. Corpi di donne e sacre scritture” di Maria Soave Buscemi, 2016

