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Il Rebetiko Patrimonio Unesco Della Grecia
di Sofia Katara Xilogiannopoulos
Immagina una Grecia diversa. Non quella di Apollo, ma quella di Dioniso. Priva della luce del Logos. Piena del vigore del Pathos. Senza siti archeologici, colori vivaci, risate spensierate, senza gioia. Nella città del Pireo, del porto più grande del paese, immagina un locale povero, umile, sotterraneo. Un posto adatto per i peccatori, gli esausti, le vittime e allo stesso tempo gli aggressori. Per tutti quelli che hanno sprecato la loro vita e lo sanno benissimo. E siccome non hanno più delle illusioni, provano a crearne poche, purché potessero sostenere il fardello dell’ esistenza. L’ aria è appannata, piena di fumo, che sale in alto a nuvole dense. Non ci si vede bene. Tavolini sparsi qua e là, odore caratteristico di sigaretta o, a maggior ragione di hashish, dappertutto, sguardi rivolsi dentro, volti deperiti. Uomini vestiti con pantaloni scuri e camicie bianche, sempre con i baffi e il « komboloi » in mano, un tipo di rosario empio, adatto per passare il tempo contando le proprie miserie, le proprie ferite. E donne travagliate, diffamate, emarginate. Nel sottofondo una musica lamentosa, suonata con il buzuki o raramente anche con il pianoforte. E in un attimo, un uomo si alza, si stende le mani come un’ aquila supplicante e comincia un ballo solitario, antichissimo, proveniente dal ballo della dea Atena, appena nata dalla testa di Giove.
Siamo al inizio del secolo scorso. Dopo la Prima Guerra Mondiale e la Catastrofe dell’ Asia Minore, soprattutto di Smirna. La maggior parte di questa gente sono profughi, greci dell’ oriente, vittime della persecuzione da parte dello Stato Turco. E vittime anche dello Stato Greco, che li ha accolti più come una matrigna che una madre. E qua che si nasce un tipo di musica del tutto straordinaria, il famoso « Rebetiko ». E qua che il buzuki, lo strumento musicale greco più noto, sottolinea le lacrime interne di questa gente, che rimane nell’ anonimità, si innamora appassionatamente, calpesta ogni regola tranne il proprio codice morale e muore prima nemmeno di iniziare a vivere.
In un anacronismo sfrontato possiamo dire che il Rebetiko assomiglia, dal punto di vista sociologico, al Rock, mutatis mutandis naturalmente. I suoi musicisti, con il ritmo e la melodia bizantina impronta inconsapevolmente nel loro DNA, si trovano in un rapporto perpetuo con la malavita, si comportano come bohemes, non si mettono in alcuna forma, vivono e muoiono fuori convenzioni. Sono i rifiutati eterni di un sistema che non hanno scelto e immagazzinano esperienze dure, affinché non si scateni una passione vulcanica, un grido nella faccia della società ipocrita, una forza zotica e altrettanto sensibile, la dignità di chi ha perso tutto… I testi delle loro canzoni parlano di solito di un amore appassionato e maledetto. La donna diviene una maga, una peste, irriconoscente e infedele, che li rovina completamente. Ma loro, cavalieri senza corazza, rimangono sotta la sua finestra, aspettando uno sguardo, la luce dei suoi capelli, un gesto semplice. E muoiono alla sua soglia silenziosi, come dice la canzone tra le più famose, Il minore dell’alba. In ogni caso, a cosa servono le parole, quando c’è una tale musica? Dorica, lirica, maestosa nella sua semplicità.
Il Rebetiko da molti anni non viene più considerato come la musica dei reietti. Fa pure parte del Patrimonio Immateriale di Unesco e gode fama e rispetto mondiale, come antenato diretto del cosiddetto sirtàki, la sua versione folclore degli anni sessanta. Una prova della sua diffusione è anche il fatto che un artista italiano, Thomas Kunstler, impressionato dalla forza di questa musica e dal fascino dei suoi rappresentanti, soprattutto del Patriarca del rebetiko, Marcos Vamvakàris, ha creato dei video usando la tecnica del claymation. E si dimostra intenditore grandissimo di questa arte, che a prima vista sembra troppo greca, troppo peculiare, troppo unica… Perché il Rebetiko parla di chi porta un dolore dentro, di chi non ne può più, di chi sa cosa significa l’amore disperato o la dipendenza di ogni tipo, che ci spinge ai propri limiti. Parla di chi gioca pur sapendo che perderà. E chi perde, guadagna sempre…

